07 Ago QUEL PICCOLO MONDO DI IERI Un vecchio saggio
L’opinione di Don Chino
2019-05-29 11:12:51
“I ricordi che ci riportano nel passato hanno qualcosa
da suggerirci, da insegnarci. Conservano esperienze, desideri raggiunti, ideali
che solo il futuro ha potuto accertare. Nel mio piccolo mondo di ieri, povero
di cose e ricco d’umano, ho conosciuto persone, vissuto fatti che hanno
lasciato in me il desiderio di correre verso il futuro con in mano la fiaccola
accesa.” Don Chino
Pezzoli
UN VECCHIO SAGGIO
Di buon mattino, mi recavo con mio nonno Lilo in una
baita situata tra i boschi per far legna. Percorrevamo una mulattiera ripida,
sassosa, con la neve e il ghiaccio d’inverno e d’estate ombreggiata dagli
alberi. Allora tutti camminavamo per raggiungere un paese vicino, una casa
isolata tra le montagne, un santuario. Le gambe erano allenate.
I piedi calzavano zoccoli o vecchi scarponi con
qualche numero in più, per soddisfare i rattoppi abbondanti delle calze. Se
però le scarpe erano a misura o strette, le tomaie s’adattavano con l’uso,
lasciando sui piedi qualche callo o vescica di ricordo. A volte il piede non ce
la faceva proprio ad ampliare la cavità della scarpa, la tomaia si rifiutava
d’allargarsi. Un rimedio c’era: un pezzo di legno a sagoma di piede veniva
ficcato tra suola e tomaia per allargare la cavità.
Mio padre, calzolaio familiare, mi assicurava che la
tomaia della scarpa messa “in forma”, ossia pressata da quella sagoma di legno,
per una o due giornate, si sarebbe allargata, allungata, insomma avrebbe
ospitato i piedi comodamente. Non era proprio così. Dopo l’intervento, se le
scarpe fossero rimaste strette, non valeva la pena nemmeno lamentarsi: mio
padre m’assicurava che con l’uso le scarpe si sarebbero allargate, che si
trattava di una pelle di cuoio particolare che richiedeva tempo, uso e un po’
di sofferenza iniziale.
Spesso con le scarpe strette seguivo mio nonno lungo
la mulattiera con un passo lento ma continuo e, se mi fermavo, subito
borbottava: “Su che sei giovane!”. Non avevo dubbi sulla mia età, avevo solo
sette anni. Rallentavo il passo soprattutto d’inverno, durante le giornate
piovose e nevose, quando l’acqua entrava gelida dalle fessure delle scarpe e
usciva tiepida e i geloni mi tormentavano.
D’estate risparmiavo gli zoccoli o gli scarponi,
camminavo a piedi scalzi con il rischio che qualche spina s’accasasse nei
piedi. L’estrazione non era immediata, ma avveniva di sera, quando la mamma con
l’ago da cucire, disinfettato alla fiamma di una candela, allargava il foro e
con il pollice e l’indice, cavava dal piede l’invasore. Geloni d’inverno e
spine d’estate. Poveri piedi…
Mio nonno, non si curava dei miei piedi, i suoi, per
dirla con il poeta Pascoli, erano già stati “provati dal rovo” e non ammetteva
alcun lamento. Camminava lungo la mulattiera con la testa bassa e aiutandosi
con il bastone nodoso di rovere. Certamente la sua vita era stata difficile.
Non passava occasione, che non mi raccontasse episodi della sua infanzia di
lavoro nei campi, di fatica, di fame.
Nemmeno la mia vita era facile, ma messa a confronto
con la sua sembrava poca cosa. A metà percorso mio nonno estraeva dal giaccone
lo zufolo, si sedeva sul solito sasso e regalava le sue note armoniose al
creato, a se stesso, a me che non distoglievo da quel volto rugoso il mio
sguardo. Sorseggiava l’acqua dalla fiaschetta che teneva nella bisaccia,
divideva con me un panino, di solito raffermo, guardava verso l’alto per
ringraziare del pane il Signore e poi di nuovo in cammino.
Giunti alla baita del monte croce, con sicurezza e
orgoglio infilava nella toppa la chiave di dieci centimetri. Apriva la sua casa
di tre locali: cucina, camera, cantina o ripostiglio. L’arredamento era
completo: un tavolo, tre sedie, un camino, un letto e due comodini. A
sufficienza per viverci. L’acqua era quella della cisterna che si riempiva o
svuotava in base alle piogge. Attorno alla baita c’erano alcune piante di
castagno che in autunno davano da mangiare alla povera gente, sostituendo
spesso il pane.
“Poveri ma
contenti”, canticchiava il nonno, mentre tagliava la legna in pezzi accessibili
alla stufa. Mio nonno era veramente una persona felice, anche se portava i
pantaloni sdruciti, una camicia di flanella smunta, una giacca che sembrava
dire alle spalle di allargarsi, un paio di scarponi fregati all’esercito. Era
felice quando contava le poche monete del borsellino, coceva sul camino l’uovo
al burro, bolliva le ossa di mucca spolpate dal macellaio, girava col
matterello la polenta e la scodellava, sorseggiava un bicchiere di vino rosso e
l’acqua del fontanile.
Era felice quando calpestava l’erba, tagliava e
spaccava la legna, osservava le gemme degli alberi e i fiori dei boschi,
respirava aria pura, seguiva con lo sguardo il pettirosso che saltellava da un
ramo all’altro, suonava il suo zufolo e ammirava la bellezza del panorama
libero dai mucchi di cemento. Non aveva bisogno di fingere di essere forte, di
sapere molte cose. Non si preoccupava di ciò che pensavano di lui gli altri:
gli bastava un confronto ogni sera con la sua coscienza.
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