07 Ago Profughi: l’assuefazione al dolore
Pensaci Su…
2017-05-17 07:46:27
L’abitudine alle sciagure che colpiscono i profughi accresce la distanza tra chi soffre e noi.
L’abitudine alle sciagure
che colpiscono i profughi accresce la distanza tra chi soffre e noi. Fa pensare
che la notizia che duecento morti o dispersi in mare, non finisce neppure più
in prima pagina sui giornali, ma scivola in quelle seguenti fra le notizie non
eclatanti. Per sciagure analoghe, solo qualche anno fa la commozione era più
presente, ci coinvolgeva maggiormente. Le tragedie odierne dei profughi in
cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile che periscono, spesso
anonimi e ignoti, in mare non sono meno dolorose, ma non sono più un’eccezione
bensì una regola. E ciò che diventa regola abbassa la soglia della sensibilità.
Ci
facciamo il callo
Le tragedie diventano quindi
una cronaca consueta, cui si è fatto il callo, e che quindi non ci si turba
più, non desta più emozioni. Questa assuefazione che conduce all’indifferenza è
inquietante, accresce l’incolmabile distanza tra chi soffre o muore. Qualcuno
afferma che si tratta di una necessaria “difesa” mentale per non lasciarci
rodere dal dolore. Può darsi o meglio si sa che la mente si difende dal dolore
in modi diversi. In questi casi più che di “difesa mentale”, penso che si
tratti di presa di distanza dal dolore, un dolore non nostro. È giusto quindi parlare d’insensibilità
diffusa o peggio di assuefazione al dolore.
Assorbiamo
la notizia
C’è chi pensa che
l’insensibilità non nasca dalla livida ostilità verso lo straniero, etnicamente
o socialmente diverso. Non sono d’accordo.
La nostra insensibilità non nasce soprattutto dalla ripetizione di quei
drammi e dall’inevitabile assuefazione che ne deriva. Anche se, per sciagurate
ipotesi, ogni giorno le cronache dovessero riportare notizie di soldati
italiani caduti in Siria, la reazione, dopo un certo tempo, si tingerebbe di
stanca abitudine. Pure atroci delitti di mafia vengono a poco a poco vissuti
come una consuetudine. Gli psicologi affermano che non si può sopravvivere
emozionandosi per tutte le sventure che colpiscono i nostri fratelli nel mondo;
pure la commozione per l’efferata uccisione di un bambino, dopo un certo tempo
orribilmente si placa; la notizia è stata assorbita, non scuote più l’ordine
del mondo né il cuore.
Non
ci sconvolgiamo più
Il nostro limite umano
consiste nel fatto che perfino il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa
soglia, non ci sconvolge più. La nostra mente seleziona il dolore o meglio ne
fa una cernita tra quello che tocca i nostri sentimenti direttamente e quello
che si ferma solo alla conoscenza. Il nostro sentimento, comprensibilmente, ci
fa piangere per la perdita di un amico che amiamo e non per uno sconosciuto, ma
dobbiamo sapere, non astrattamente, ma realmente, con la comprensione e
compassione che uomini da noi mai visti e non concretamente amati sono altrettanto
reali. Di qui parte l’educazione dei sentimenti.
La
mente non ci basta
La persona che basa le sue
relazione unicamente sulla conoscenza dei fatti, facilmente coglie un’umanità
astratta e coltiva un amore astratto, ideologico per il genere umano, perché sa
amare il proprio compagno di scuola, ma non sa veramente capire che persone a
lui ignote sono altrettanto reali; non astrazioni ma carne e sangue. I rapporti
interpersonali esigono che ognuno si metta nella pelle degli altri, dunque
anche in quella di quei naufraghi in fondo al mare. L’assuefazione al dolore
mette in crisi la solidarietà, la carità.
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