07 Gen Il dono dell’accoglienza
“È una persona accogliente”, ci capita di dire di qualcuno, per indicare la sua capacità di
comprensione e la sua disponibilità. Fra le tante qualità che possiamo riconoscere nelle
persone, sicuramente primeggia l’accoglienza. È un tratto inconfondibile, che rivela
l’intenzione sincera di fare spazio agli altri nel proprio cuore. Nel praticare l’accoglienza si
fa opera di umanizzazione, si realizza la propria umanità accogliendo l’umanità dell’altro.
Accogliere è uscire dalla logica dell’inimicizia, è fare del potenziale nemico, un ospite.
L’altro, il vero altro, non è colui che scegliamo di invitare in casa nostra, bensì colui che si
presenta davanti a noi, che giunge a noi portato semplicemente dall’accadere degli eventi
e dalla trama intessuta del nostro vivere.
In realtà, tutti noi avvertiamo il bisogno di aprirci al prossimo e, nel contempo, siamo alla
ricerca di qualcuno disposto a farsi carico della nostra vita. Ciò avviene, in primo luogo,
nella nostra famiglia d’origine, dove la nostra serenità dipende dal sentirci accettati dai
genitori; in secondo luogo, nel nucleo familiare che a nostra volta formiamo come sposi e
come genitori accogliamo la persona scelta per la vita e le creature che Dio ci ha donato,
quando il loro mondo diventa il nostro in un legame indissolubile. Certo, questo stile
accogliente non si limita soltanto alla sfera affettiva e familiare, ma va oltre, si estende a
chi si affaccia alla porta della nostra vita per chiederci briciole di attenzione, di disponibilità
e di ascolto.
Nella prima lettura dal secondo libro dei Re ci viene descritto un bell’esempio di
accoglienza: il profeta Eliseo, passando per Sunem, fu trattenuto a mangiare da un’“illustre
donna […], in seguito, tutte le volte che passava si fermava a mangiare da lei”. Il motivo di
tanta generosità consisteva nell’avvertire la sua singolarità, infatti la donna diceva al
marito: “Io so che è un uomo di Dio”. Con la perspicacia tipica delle donne, aveva colto nel
segno: nel profeta Eliseo vedeva quella traccia di santità, quell’impronta divina presente in
ogni persona creata a immagine e somiglianza di Dio. È questo il primo atteggiamento da
assumere per essere accoglienti: riconoscere nell’altro i lineamenti del Signore che ci
cerca, ci chiede attenzione, mendica un piatto d’amorevolezza e un pane fragrante di
generosità.
È davvero accogliente questa donna, è facoltosa d’amore, d’intelligenza e di creatività,
capisce di dover fare di più: bisognava ricavare una piccola stanza per il profeta, cosicché
si sentisse a suo agio, come a casa propria. Anche noi dovremmo comprendere che non
facciamo mai abbastanza quando si tratta di accogliere un ospite. In genere, parlando di
ospiti ci riferiamo a parenti e amici a cui apriamo le porte di casa, oppure pensiamo ai
turisti che affollano i nostri luoghi assicurandoci buoni margini di guadagno. È facile essere
accoglienti con chi amiamo o con chi ci garantisce un tornaconto, difficile è condividere
anche solo pochi spiccioli con chi ci chiede un pasto e un tetto.
Forse Dio in questo nostro tempo così problematico ci sta mettendo alla prova, vuole
vagliare la nostra umanità e la nostra fede, visitandoci in quella marea di migranti, di
clochard, senza fissa dimora che dormono avvolti in sacchi a pelo sui marciapiedi, in
scantinati freddi o in casolari abbandonati fra i campi. Il Signore assume le sembianze di
un sopravvissuto, che ne ha passate tante, rischiando di morire di stenti per le strade delle
nostre città opulente, sulle piste battute fra le dune del deserto; il suo corpo è sfigurato
dalle torture subite nei campi libici; per poco non affogava quando il suo gommone si è
rovesciato. Infine è arrivato con l’anima spenta fin sull’uscio di casa nostra. L’abbiamo
guardato male, non ci siamo nemmeno accorti di averlo già incontrato domenica a Messa,
di aver ascoltato con devozione la sua parola e di esserci cibati di lui, di un morto di fame.
“Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” ci
ricorda Gesù nel Vangelo. Sono parole che il Signore oggi rivolge in primo luogo ai poveri
del mondo, autentici e forse unici uomini e donne di Dio, inedito segno della sua presenza
reale. Hanno volti contraffatti da sofferenze indicibili; hanno mani che si allungano per
stringerci e trattenerci, costringendoci a farci carico dei loro drammi; hanno bocche che si
aprono per ricevere quel cibo che i nostri sistemi economici hanno loro negato. Non hanno
niente o forse tutto: Dio che continua a farsi carne nella loro carne. Sono questi derelitti
che percorrono le nostre strade di giorno rovistando nelle pattumiere, passano le notti nei
lazzaretti delle nostre città, che hanno nella loro anima il grido della speranza.
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