07 Ago ESCE LA NUOVA RUBRICA DI DON CHINO PEZZOLI : “QUEL PICCOLO MONDO DI IERI”
L’opinione di Don Chino
2018-06-25 14:29:40
Nel mio piccolo mondo di ieri, povero di cose e ricco d’umano, ho conosciuto persone, vissuto fatti che hanno lasciato in me il desiderio di correre verso il futuro con in mano la fiaccola accesa.
“I ricordi che ci riportano nel passato hanno qualcosa
da suggerirci, da insegnarci. Conservano esperienze, desideri raggiunti, ideali
che solo il futuro ha potuto accertare. Nel mio piccolo mondo di ieri, povero
di cose e ricco d’umano, ho conosciuto persone, vissuto fatti che hanno
lasciato in me il desiderio di correre verso il futuro con in mano la fiaccola
accesa.” Don Chino
Pezzoli
Detti, proverbi,
mestieri di ieri
Nei primi cinquant’anni del secolo scorso, solo un
numero esiguo di adulti provenienti da famiglie benestanti, aveva frequentato
le scuole superiori e pochissimi
l’università. Tutti gli altri avevano concluso gli studi alla terza, quinta
elementare. Possedevano però esperienze di vita, tradizioni, mestieri, valori
da trasmettere alle nuove generazioni. I giornali allora erano sostituiti dalle
notizie che passavano di bocca in bocca. I libri erano pochi e riservati a chi
aveva una certa preparazione culturale. I proverbi e i detti popolari erano la
saggezza dei contadini, della povera gente che trovava sicurezza in queste
affermazioni che venivano tramandate in famiglia, nel paese. I nostri nonni erano custodi dei proverbi da
trasmettere ai nipoti come regole, principi, valutazione delle situazioni che
la vita presentava. Ogni famiglia aveva il suo detto, rigorosamente in lingua
locale, il dialetto che conosceva accenti e suoni particolari. Sui detti e i
proverbi popolari non si poteva discutere, venivano tramandati come verità,
modi di pensare diffusi, condivisibili e verificabili nelle esperienze di tutti
i giorni. Riguardavano i valori morali, il senso della sofferenza, persino come
superare alcune difficoltà. Una vera enciclopedia di saggezza popolare. Eccone
alcuni, per richiamare quei tempi e quel sapere perduto. Negli affari il
venditore e il compratore affermavano: “Carta canta, parola vola”. Facevano
intendere che le parole negli affari non erano sufficienti. Tra un padre e i
figli, spesso ingrati: “Un padre mantiene sette figli, ma sette figli non
mantengono un padre”. Se poi si doveva scegliere una moglie, doveva essere
“bella, buona, silenziosa e di casa”. Inoltre, meglio se di famiglia nota:
“Donna e buoi nei paesi tuoi” E per scusarsi di un errore si diceva: “Sbagliano
anche i preti a dire messa”. Alcuni
detti richiamavano le situazioni difficili della vita. “A chi tocca, tocca”,
“ognuno ha la sua croce”. E di fronte a qualche decesso inatteso: “Dio vede,
Dio provvede”; “Quel che Dio vuole non è mai troppo; “Ha finito di soffrire”.
Espressioni rassegnate, con la consapevolezza che la nostra vita è nelle mani
di Dio. C’erano poi i modi di dire per il carattere: “È svelto come un gatto di
marmo”, per un tipo pigro e addormentato; “Sta sulle sue” designava una persona
chiusa in sé. “E’ al mondo perché c’è posto”, si trattava di un individuo
parassitario e inutile. “Ha un piede nella fossa”, cioè stava per tirare le
cuoia. Questi ed altri sono i detti che
servirono a dare sicurezza, valore alle affermazioni, saggezza alle scelte
della gente umile che spesso nasceva, viveva e moriva nello stesso paese senza
la possibilità di studiare.
E i mestieri di
ieri? Sono un ricordo prezioso gli ambulanti, gli spazzacamini, gli ombrellai e
altri che passavano di paese in paese. Gli ombrelli rotti erano consegnati
all’ombrellaio, appena lo si sentiva gridare per strada. A volte più che un
grido pareva un lamento, sufficiente tuttavia perché le massaie uscissero di
casa con qualche ombrello sotto il braccio. L’ombrellaio si sedeva su un sasso,
su un gradino, estraeva dal tascapane gli strumenti: stecche, pinze, fili,
manici di corno e con la rapidità di un prestigiatore aggiustava l’ombrello.
Poi lo apriva e chiudeva velocemente, lo maltrattava facendolo girare in senso
orario per dimostrare la recuperata solidità. Le sedie consumate dall’uso venivano messe
fuori dagli usci e a ripararle ci pensava l’impagliatore o “scagnì” che seduto
su uno sgabello basso e stringendo nella morsa delle ginocchia la sedia da
riparare, intrecciava come un tessitore sul telaio lucenti mannelli di paglia.
Poi invitava un grassone di passaggio a salire in piedi sulla sedia per il
collaudo. L’arrotino era un’altra professione apprezzata dalla gente. Questo
signore con il grembiule e un berrettino con la visiera, aveva una mola a
pedale, che con il progresso sarebbe stata applicata alla bicicletta. La mola
era sormontata da un barattolo di latta, da dove scendevano alcune gocce
d’acqua ad inumidire la lama. Con una sicurezza e competenza l’artista spingeva
l’utensile contro la mola, spostandolo ora a destra ora a sinistra, facendo
polvere e scintille. Un’arte, quella dell’arrotino, apprezzata dalle casalinghe
sempre alle prese con coltelli, forbici, scuri e roncole inefficienti.
Un ricordo va riservato pure ai “magnani” che
applicavano ai paioli lucenti rivestiture di stagno. Seduti accanto a una brace
che serviva per sciogliere la verga di stagno nella cavità del paiolo,
contrattavano il prezzo con il cliente prima del lavoro, in base alla cavità
del paiolo da coprire. Era un’occasione per le donne per farsi valere, per
intrattenersi con un uomo che la sapeva lunga. Lo spazzacamino invece indossava
un berretto di feltro calato fin sugli occhi. Nero il berretto, nero il viso,
lo si riconosceva per la voce non certamente per la faccia. Agli spazzacamini
le leggende popolari attribuivano amori illegittimi. C’era la canzone dello
spazzacamino, abile nel pulire le canne fumarie, ma anche nel corteggiare le
casalinghe.
Detti, proverbi e mestieri portati via dalla cultura e
dal progresso. Meglio quel piccolo mondo antico o quelllo di oggi? Lascio al
lettore scegliere.
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