30 Apr Siamo tutti in attesa
“In verità siamo tutti in attesa”, così dice la voce narrante di un racconto di Cesare Pavese
(Piscina feriale), un libro che non siamo noi a leggere, ma che legge noi. C’è un gruppo di
persone che passano il tempo ai bordi di una bella piscina color verdemare, inebriata di
luce: chi si tuffa, chi prende il sole. Non importa chi siamo, tutti siamo “in attesa” di
qualcosa che sconvolga o dia senso a quella quiete, a quella bellezza, a quella compagnia
che nasconde la solitudine: “Ciascuno di noi pensa che se la piscina fosse deserta, non
reggerebbe a starsene sola, sotto il cielo”. Un richiamo esplicito dello scrittore a tuffarci tra
la gente per rompere la solitudine. Un pensiero forte, sconcertante.
In questo racconto Cesare Pavese puntualizza che uomini e donne attorno o dentro la
piscina verdemare della vita sono in una condizione comune: “Non si sfugge nemmeno
nell’acqua alla solitudine e all’attesa”. E ancora: “Siamo un miscuglio di solitudine e
attesa”. Cerchiamo di lenire la solitudine con la compagnia degli altri, ma niente e nessuno
può lenirla, neanche la bella piscina dei nostri sogni e progetti: non basta, non basta mai.
Inoltre, proprio quelle persone che ci fanno compagnia, nello scambio di parole e gesti,
riaccendono in noi un’intensa attesa: “La compagnia che ci facciamo serve a distrarci dalla
varia attesa. Chi potrà mai lenire questa ferita del destino che non si rimargina mai? Che
cosa deve dunque accadere?” Tutti aspettiamo nelle nostre vite, tutti attendiamo che
qualcosa accada, qualcosa di nuovo, di definitivo, di risolutivo, che riempia, soddisfi,
disseti la nostra attesa. Il pessimismo dello scrittore soffoca ogni speranza.
Continua lo scrittore con pensieri che parlano di un’attesa insensata e vuota: “Nessuno ci
ha promesso niente, eppure siamo sempre lì ad aspettare qualcosa che ci salvi; e per
quanto le cose belle di questo mondo possano riempire per un po’ il nostro orizzonte visivo
e il nostro cuore, poi inevitabilmente, la vita ci delude. Ed è bene che ci deluda, e ci delude
perché ciò che abbiamo raggiunto non è ciò che attendevamo, anche se ci eravamo illusi
fosse così”
La vita ci delude, perché attendiamo altro, ciò che aspettavamo non era la nostra bella
piscina verdemare. Allora ci ritroviamo a fare i conti con una solitudine rinnovata e una
rinnovata attesa, ora più forte: una nostalgia continua di qualcosa di nuovo e definitivo,
raggiunto il quale non attendere più nulla, non avere più sete. Una nostalgia paradossale,
volta al futuro, non al passato. Volta al per sempre, non ai ricordi: neanche quelli bastano
mai.
È interessante notare questo: anche qualche pensatore non credente ha colto il potenziale
racchiuso nella virtù (o forza) della speranza. Sto pensando a un marxista del secolo
scorso, Ernst Bloch, che così si esprime nel suo libro Il principio speranza: “Si tratta di
imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario, ama l’esito positivo invece
del naufragio. Sperare è superiore al temere”. All’autore balza all’occhio l’importanza della
speranza, il dinamismo insito in tale attitudine dello spirito umano. La speranza è così
profondamente radicata in noi che senza di essa non possiamo realmente vivere. Fa parte
del nostro essere umani, affonda nella zona più vitale di noi stessi. In effetti è così vitale e
profonda perché rivela il nostro essere senza misura. Rivela la nostra irrinunciabile
apertura a Dio. La speranza che è in noi rivela Dio. Il Dio che ci attende, ci chiama, è
venuto a noi e sempre viene. È aperto a noi, è rivolto verso di noi per attrarci a beni più
grandi di quelli che possiamo sperare o immaginare. Purtroppo la capacità di sperare è
spesso trascurata in noi, rattrappita, la consideriamo un valore “leggero”, utile solo per il
tempo libero. La speranza è invece importantissima.
La speranza abbatte l’incontenibile pessimismo, afferma George Steiner nel libro Passione
per l’assoluto. Il saggista francese si sofferma sull’arte dell’attesa che sta nella condizione
in cui i credenti anticipano il sabato santo. L’attesa è sospesa tra la sofferenza e la
solitudine del venerdì e la speranza di liberazione, di rinascita del sabato. Anche la
solitudine attende il riscatto definitivo dalle ombre della sofferenza. L’attesa, per il
saggista, è un’arte, per questo il cuore la ama e la crea, perché non delude. C’è sempre in
quest’attesa la sofferenza del “vuoto”, del “niente” che prepara l’evento del sabato santo, il
giorno in cui amiamo di più, perché è il giorno che somiglia di più alla nostra vita, il giorno
in cui la nostra speranza è appagata. Il silenzio del sepolcro invade tutto e rischia di tradire
ogni speranza, ma Lui non ci ha deluso, non ha fallito, è risorto. Forse le nostre attese
mancano del “venerdì santo”, cioè di quella passione che dovrebbe anticipare l’evento, la
resurrezione.
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