Quel pane quotidiano di allora

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Il pane, cotto nei forni a legna, emanava il suo caratteristico profumo nelle strade, nei vicoli.
Per noi ragazzi, il fornaio era la persona più fortunata del mondo perché mangiava il pane fresco, sotto i nostri occhi. L’invidia era tanta e la bramosia anche. I panini appena sfornati meritavano un’adorazione superiore a quella dell’ostia consacrata. Ci facevano venire l’acquolina in bocca. Tutto avremmo fatto o inventato per impossessarsi di una sola michetta. Tenevamo quindi d’occhio l’uscio d’accesso alla stanza della panificazione, spesso socchiuso. 

Quella stanza imbiancata di farina, era per noi come un piccolo paradiso terrestre da varcare. Le difficoltà, si dice, aguzzano il cervello e, in questo caso, stimolavano pure la furbizia e il coraggio. Il fornaio, un uomo calvo sulla sessantina, si recava nella stanza accanto al forno per prelevare il sacco di farina. Bastavano quei pochi istanti per precipitarsi, impossessarsi d’alcuni panini e via a gambe. 

Mi sognavo persino d’addentare un panino fresco, di nascondermelo nelle mutande, di rubarglielo al compagno. La mia mamma lo nascondeva in casa nei posti più impensati. La fame, sempre più presente in quegli anni di guerra e di carestia, ci stimolava a cercare il tesoro nascosto. I panini contati, ricontati dalla mamma ogni mattina, spesse volte erano ficcati sopra la credenza, alta tre metri circa. La  vista  di noi figli  era diretta là sopra quel mobile resistente e antico. 

Quel fagotto in cima alla madia, fu sempre per noi ragazzi come la mela per Adamo nel paradiso terrestre. E la credenza, alta circa tre metri, l’albero d’arrampicarsi con ogni mezzo.  Una scala? Un’acrobazia da circo, mettendoci uno sopra le spalle dell’altro? No, non bastava. Dovevamo accostare il tavolo massiccio di rovere alla credenza, appoggiare sopra una sedia resistente, salirvi sopra per raggiungere l’estremità della credenza reggendosi sulla punta dei piedi e alzando le braccia il più possibile. 

Il rischio di un capitombolo con o senza la refurtiva, si metteva pure in conto e le punizioni
anche. Non solo. Rubare era peccato mortale e dopo il castigo dei genitori, c’era quello del prete, che durante la confessione, ci affibbiava la penitenza: rinunciare, in parte, alla razione di pane per due, tre giorni.. Non so se il prete conoscesse i vuoti di stomaco per fame, per lui la borsa del pane non si trovava in cima alla credenza.

Non bastavano i castighi e le penitenze del prete per farci desistere da tale furto. La fame,
infatti, fece moltiplicare il pane a Gesù e, ci mancò poco, che trasformasse le pietre in pane. Il pane che, a parere dei nostri nonni, aveva “sette croste e crostoni”, comportava lavoro e tanta fatica. Se qualcuno non lavorava e mangiava il pane, si sentiva dire: “Al mangià co ‘l cò ‘n del sach”. Mangia con la testa nel sacco, a sbafo, come un cavallo intento a mangiare la sua razione di biada lontano da ogni preoccupazione con la testa infilata nel sacco. 

Queste ed altre osservazioni, servivano per farci mangiare poco, o saltare i pasti e così
risparmiare qualche panino. Puntualmente, ogni giorno, recitavamo la preghiera del Padre nostro. La richiesta fatta a Dio del pane quotidiano, destava in noi ragazzi qualche dubbio. Ci chiedevamo: “Come mai c’è così poco pane sulla terra se è Dio a darcelo? Allora anche lui passa un periodo brutto, non ha il pane da mangiare? Anche in cielo c’è la guerra?”. 

Ricordo un mio amico di quarta elementare, che scrisse alcuni pensierini sul pane e li consegnò alla maestra che li lesse ad alta voce: “Il pane è un cibo necessario, ma a casa mia i panini di ogni giorno sono quattro e a mangiarli siamo in cinque, meno male che la mamma non mangia il pane ma la polenta”. “Chiedo sempre il pane al Signore, alla Madonna e anche a S. Antonio, quello della statua che sta in chiesa sopra un tavolo con un panino in mano per i bambini poveri. A me non ha mai dato il panino”. 

La maestra quando terminò la lettura di questi pensierini, aveva gli occhi bagnati. Per noi che abbiamo indossato i pantaloncini grigioverdi e la camicia nera (allora eravamo tutti balilla), il pane è rimasto un desiderio inconscio, qualcosa di prezioso da non sciupare. Se qualcuno lo butta tra i rifiuti, ci ribelliamo, gridiamo il nostro dissenso. Sono ancora tanti i poveri che vanno a rovistare nelle pattumiere e discariche delle città per sfamarsi di quel pane che noi buttiamo.