Come si mangiava

Le abitudini alimentari all’inizio del ‘900 erano assai diverse da quelle di oggi. L’alimentazione,
semplice e insufficiente, si basava sui prodotti che la terra offriva. Se una brutta stagione, però, rovinava il raccolto, si profilava lo spettro della fame. Durante la giornata si consumavano generalmente tre pasti. Al mattino si consumava una colazione con latte o brodo avanzato la sera prima e fettucce di polenta o croste di pane. Il pranzo di mezzo giorno era quasi sempre una seconda colazione ed era tanto frugale, che si consumava spesso in piedi. Si mangiava con le mani in un unico piatto di creta e le dita venivano pulite di tanto in tanto con pezzetti di pane.
Il pranzo principale per i contadini era quello della sera, al ritorno dal lavoro dei campi, quando alla luce incerta del lume ad olio si consumavano i consueti cibi: erbe di campo e i legumi cucinati sul fuoco in recipienti di terracotta. Le erbe spontanee che generalmente si consumavano erano quelle di stagione: cicoria, zucche, zucchine, finocchi, fagioli, patate, insalata, pomodori, piselli, lentiche.
Particolarmente consumati erano i “cardi” di cui si consumavano solo i gambi, cotti assieme ai fagioli. I funghi raccolti nei boschi e cucinati al fuoco con pochissimo olio erano il piatto prelibato. Assieme alle verdure si consumava l’immancabile minestra o minestrone di brodo ottenuto con pezzetti di lardo o con qualche osso di bovino comperato a basso costo dal macellaio. Di domenica si mangiava a mezzogiorno la pasta col pomodoro o con olio, aglio, peperoncino e pan grattato, la cosiddetta “pasta condita”.
La carne era sulla tavola delle famiglie povere solo quando una bestia fosse deceduta o incidentata al pascolo o comperata dal macellaio a basso prezzo. Si mangiava carne, per lo più di ovini, caprini, conigli, galline nelle grandi occasioni, quali battesimi e matrimoni e feste
solenni. Per queste circostanze la pasta, che costituiva sempre il primo piatto, veniva cotta in grandi caldaie e poi colata in enormi cesti di canne intrecciate.
Il pane non mancava mai e solitamente veniva preparato in casa. Il più ricercato e costoso era il pane di grano, ma abbastanza diffuso era anche quello fatto con farina di granturco di cattivo sapore e poco digeribile. Si faceva uso anche di pane d’orzo o di segale dai chicchi piccolissimi dai quali si ricavava una farina scura, che si usava anche per confezionare pasta e
dolci. Fare il pane in casa era quasi un rito a cui partecipavano non solo le donne della famiglia, ma anche le comari del vicinato.
Si iniziavano i preparativi la sera. Le massaie, dopo avere lavato accuratamente le mani e
cinta la testa con un fazzoletto, si facevano il segno della croce, setacciavano la farina alla quale univano il lievito che scioglievano in acqua tiepida. Impastavano, quindi, il lievito cosi disciolto in circa un quinto della farina destinata al pane, lavorando bene l’impasto, perché si amalgamasse. Il giorno dopo si alzavano di buon’ora, aggiungevano la rimanente farina all’impasto della sera prima e lavoravano la pasta per circa tre ore, unendovi il sale e l’acqua necessaria. Quando la pasta era pronta, la dividevano in pezzi a cui davano forma tondeggiante, allungata o a ciambella. Mettevano, quindi, le forme cosi preparate nel letto a lievitare tra due panni, con sopra delle coperte di lana.
Un’ora prima che il pane fosse cotto si accendeva il forno. Quando la bocca di esso diveniva bianca, significava che si era raggiunta la temperatura adatta. Si toglievano le braci, parte delle quali erano tenute da parte per essere messe davanti alla “chiudenda”, la lastra di ferro, che chiudeva la bocca del forno. Poi con una specie di scopa fatta di stracci bagnati, si puliva bene il forno delle ultime braci e della cenere con movimenti veloci, perché il calore non si disperdesse. La donna addetta al forno poi controllava la cottura del pane. Il profumo del pane appena sfornato rallegrava piccoli e grandi.