Furti e scommesse

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I cartoncini che trovavamo in chiesa per prepararci alla confessione portavano una domanda: “Hai osservato il settimo comandamento?”. Il settimo, dei dieci comandamenti, ordinava di non rubare. Per i bottegai e ambulanti, le bilance e stadere erano redditizie, non si facevano scrupolo di truccarle. Ricordo un salumiere che possedeva una lucente bilancia con i piatti d’ottone in perfetto bilico, pesava la mortadella e il taleggio buttandoli sul piatto con una carta appesantita nel retro da una fetta di lardo appiccicata. 

Rubava al cliente dieci grammi di mortadella ogni pesata. Imperterrito poi consegnava al cliente la merce infilando la fetta di lardo nella tasca del grembiule. Quando fu scoperto, il parroco (allora non c’era la privacy), fece un sermone sul settimo comandamento che veniva da certuni violato in diversi modi:  un modo era quello del salumiere. Il parroco non pronunciava il nome, ma tutti lo conoscevano. 

Se poi si trattava di pesare sacchi di frumento, ceste di legna, di carbone sulla stadera, non
mancavano i trucchi. Si maggiorava la tara del recipiente, distraendo il cliente momentaneamente, mettendo un piede sul piano della stadera per aumentare il peso. Si rubavano polli, galline, conigli allevati nei sottoscala delle abitazioni. Il furto, di solito notturno, avveniva al lune di lampada a petrolio e con un mozzicone di candela. La refurtiva veniva messa in sacchi di juta con qualche foro. 

I carabinieri al mattino perlustravano il vicinato per trovare il  corpo del reato, difficilmente le indagini portavano ai ladruncoli, esperti nel far sparire gli animali in qualche casolare sperduto tra i boschi  o nelle campagne. Il furto veniva messo a conoscenza del parroco che, i giorni seguenti condannava all’inferno i rei.

Si rubava, il più delle volte, per necessità e il parroco lo sapeva e quindi terminava la sua omelia con la raccomandazione di aiutare le famiglie bisognose. 

Per cupidigia si rubavano i soldi nel gioco delle carte, dei dadi, delle scommesse. Il mazzo di
carte taroccate i giocatori incalliti lo portavano sempre con sé per sostituirlo con quello dell’oste. Ogni partita vinta poteva rendere: cinque, dieci lire. I dadi costituivano il gioco d’azzardo di quei tempi. La strada, i vicoli semibui erano gli ambienti dei giocatori che in una sera si giocavano tutto lo stipendio. Le mogli spesso rimanevano senza il necessario per sfamare, vestire i bambini per questo viziaccio, quasi sempre associato alla sbronza. I più
ingenui e tonti ci facevano le spese. 

Un modo più preferito per fare soldi era quello delle scommesse. Si scommetteva su ogni cosa pur di racimolare soldi. Gli scommettitori avevano la loro fissa dimora nelle osterie, dove ogni argomento era utile per scommettere. Diceva un tale: “Scommettiamo che è una donna la prima che passa davanti a noi?”. Rispondeva l’altro: “No, è un uomo”. Mettevano quindi sul tavolo cinque lire ciascuno in attesa del vincitore. Qualcuno di questi sfaccendati, scommettevano persino sui  “chicchirichì”  del gallo al mattino, sul numero dei tocchi della
campana a mezzogiorno, sul peso netto di qualcuno che frequentava lo stessa osteria. 

Le scommesse in passato favorivano i vincitori e danneggiavano i perdenti. Le mogli quando rientrava in casa il marito semibrillo e con la testa bassa, frugavano nelle sue tasche per verificare se quei pochi soldi erano finiti nella tasche dei frequentatori dell’osteria. Di fronte  alle tasche  vuote il marito inventava storie inverosimili, ma la moglie con uno spintone dopo l’altro lo buttava sul letto con qualche parolaccia che non oso scrivere. 

I soldi allora erano pochi, non sufficienti nemmeno per sfamare la nidiata di figli, lasciarli
all’oste o nelle tasche di qualche avventore, significava privare la famiglia del necessario. Insomma, commettere un peccato grave: far mancare il pane ai propri figli: rubare gridava il parroco dal pulpito. E quando questi bevitori e scommettitori si recavano al confessionale, il parroco riservava loro una penitenza particolare: non frequentare le cattive compagnie. Una penitenza che durava poco tempo, quello necessario per uscire dalla chiesa e rintanarsi nell’osteria.