Lo spazzacamino 

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Per molti di noi la figura dello spazzacamino è un ricordo lontano. Nella nostra memoria si tratta di una persona non più giovane che si adattava a un lavoro sporco e umile, accontentandosi di avere da mangiare e dormire in una stalla. Accanto a questa immagine dello spazzacamino ce n’è un’altra, quella dei garzoni, ragazzini di undici, dodici anni che con facilità salivano e scendevano dal buco del camino.

Piero, 85 anni, ricorda che dagli undici ai tredici anni fece lo spazzacamino. “Salivo lungo il buco del camino, il padrone mi sollecitava a grattare via la fuliggine dalle pareti con cura. M’arrampicavo con l’aiuto di una corda fissata al comignolo uscivo poi sul tetto.  Il buco era buio, spesso stretto e incrostato di polvere nera. Con i gomiti e le ginocchia cercavo di salire mentre lasciavo cadere in basso una nube nera di polvere. Stavo chiuso in quel buco nero anche un’ora e mezza. Il padrone sotto i gridava di fare presto”.

“Ho fatto lo spazzacamino dagli undici anni fino ai quattordici, ero tra i garzoni il più fortunato perché il mio padrone mi dava a mezzogiorno pane, formaggio e un bicchiere di vino. La sera mi portava a mangiare la minestra all’osteria del paese. Dovevo mangiare poco per non ingrassare e così salire più facilmente il cunicolo del camino. Mi dava da bere alla sera persino la grappa perché bruciava i grassi. Ero sempre sporco e cercavo di lavarmi alla fontana del paese, ma il mio padrone mi sgridava nelle orecchie: “Siamo spazzacamini, la gente ci vuole sporchi”.

“Quando pioveva la caligine penetrava nella pelle e i nostri volti erano neri come quelli degli africani. I vestiti sporchi e inzaccherati li portavamo addosso tutto il giorno e solo alla sera li
mettevamo ad asciugare sulla scala a pioli del fienile dove dormivamo. Al mattino, via di buon’ora per le strade del paese gridando: “Spazzacamino, spazzacamino!”.  Si aprivano alcune finestre e le donne chiedevano il costo della prestazione. La risposta era sempre la stessa: “Quello che può darmi, signora”.

“Quando passavo davanti al forno, il profumo del pane mi dava il capogiro, se mi fermavo per un attimo solo per guardare le michette uno scappellotto o una pedata del padrone rompeva l’incanto. Se qualcuno mi allungava una mancia dopo il lavoro ben fatto, il padrone mi perquisiva e trovava anche la più piccola moneta. Se mi lamentavo, mi diceva che nelle tasche dei ragazzi non ci dovevano essere soldi”.

“D’inverno, gli spazzacamini non lavoravano e tornavano nelle loro famiglie.  Io con quattro stracci addosso tornavo da miei genitori e mi sentivo dire: “Una bocca in più da sfamare”. Quanto freddo e fame in casa. La sera quando mi buttavo sul pagliericcio sognavo spesso di trovarmi nella cavità del camino incapace di salire e scendere. Un incubo? Forse sì! Mi
svegliavo gridando e tremando”.

La testimonianza di Piero ci ricorda che le condizioni generali dei ragazzi garzoni dello spazzacamino erano al limite della sopravvivenza, sporchi affamati e impauriti. Venivano retribuiti con un po’ di cibo e qualche indumento vecchio e logoro che le donne impietosite donavano. Molti di questi ragazzi si ammalavano di broncopolmonite fulminante, morivano tisici.

La maggior parte di questi ragazzi erano orfani dei genitori e vivevano per strada e per
sfamarsi erano disponibili ad arrampicarsi nel cunicolo dei camini incrostati di fuliggine.  Quanta povertà e miseria!  Piero ricorda: “Mio nonno mi ha tolto da quell’inferno, mi ha salvato la vita portandomi nel bosco a pascolare le capre.”.