Olio di ricino per tutti i mali

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Il medico condotto girava per le case, misurava la febbre, ascoltava i battiti del cuore del paziente e prescriveva inevitabilmente l’olio di ricino. Mal di pancia, mal di testa, inappetenza, influenza, bruciori di stomaco o brufoli sulla pelle? Olio di ricino. Un olio
dall’odore repellente e dal sapore disgustoso che faceva parte del pronto soccorso casalingo. 

Una convinzione diffusa aveva stabilito che una medicina per essere efficace doveva essere disgustosa. Essendo il dolore qualcosa di cattivo, per scacciarlo occorreva evidentemente qualche cosa di disgustoso, di repellente. Le mamme aggiungevano all’olio di ricino un
cucchiaino di zucchero per togliere il disgusto del farmaco. 

Quando arrivarono nelle farmacie i primi purganti dal sapore e odore gradevole, i nostri vecchi scollarono la testa con diffidenza.
Sembrava loro impossibile che un farmaco fosse come una caramella. L’olio di ricino, anche dopo l’arrivo dei nuovi farmaci, rimase per alcuni anni il toccasana universale. Le nostre mamme lo usavano pure come minaccia per dissuadere i ragazzi dal fingere un mal di pancia, di testa. 

Le nostre mamme infermiere ci davano il triste annuncio in anticipo: “Domani mattina purga!”. Un rito da subire con alcuni accorgimenti: turare con le dita il naso, portare il cucchiaio alla bocca con una smorfia incontenibile, ingoiare in fretta il liquido e poi addentare uno spicco di limone per sgrassare la lingua. Nelle case dei ricchi si preparava questa purga con accorgimenti vari, si otteneva un vischioso cocktail mischiando l’olio nel bicchiere con birra, caffè, latte e zucchero. 

L’effetto benefico dell’olio di ricino scaturiva da un’analogia con la meccanica d’allora. La vecchia macchina da cucire Singer, infatti, la si ungeva con l’olio per renderla più agile e scorrevole. Così pure una porta quando cigolava chiedeva olio sui cardini. L’olio era diventato, nell’immaginario popolare, il lubrificante interiore che imprimeva alle scorie,
ferme nelle anse della serpentina intestinale, un movimento e la conseguente evacuazione.  Gli effetti erano repentini e costringevano l’utente a sostare in prossimità di un bagno per i ripetuti stimoli impellenti. 

Un’altra medicina era l’olio di fegato di merluzzo, somministrato prima dei pasti ai ragazzi sospetti d’esaurimento. “E’ tutta salute”, sentenziava la mamma, mentre spiegava ai figli che conteneva il fosforo che sviluppava l’intelligenza. Un mio amico scrisse sul suo quaderno che da grande sarebbe diventato certamente uno scienziato perché la sua mamma gli dava tanto olio di merluzzo. 

Pur essendo odiati, i due olii, di ricino e di merluzzo, occupavano l’inconscio collettivo come medicine: una come liberatoria dell’intestino, l’altra come rinforzo alle meningi. Anche l’olio d’oliva guariva gli orzaioli. Se sulla palpebra spuntava un orzaiolo, si appoggiava l’occhio
sull’estremità del collo della bottiglia dell’olio e l’orzaiolo scompariva. Gli orzaioli allora erano abbondanti, per cause certamente igieniche, la cura però era sempre la stessa: guardare per due o tre volte l’olio d’oliva nella bottiglia. Pare che funzionasse. 

La bronchite si curava invece con impacchi di farina di lino. La poltiglia di farina veniva avvolta in un fazzoletto o garza e si adagiava bollente sul petto. Scioglieva il catarro e spegneva i focolai d’infezione, si diceva. Prima di mettere sul petto l’involucro, la mamma lo
appoggiava alla sua guancia per verificare la temperatura e evitare ustioni. 

Contro le contusioni, distorsioni, gli strappi muscolari, i dolori articolari si ricorreva agli impacchi di acqua calda salata o a una pennellata di tintura di iodio. Chi era raffreddato doveva bere una tazza di latte con il miele e un goccio di grappa o cognac. Per combattere il raffreddore si usava anche il vin brulé, una tazza di barbera scaldato con i chiodi di garofano e una buccia di limone. E poi sotto le coperte a sudare con un berretto di lana in testa, una
sciarpa al collo mentre il naso sgocciolava. 

Per le altre situazioni ritenute meno gravi si chiedeva consiglio al medico indirettamente, tramite un’amica, una vicina di casa. Veniva incaricata d’esporre al medico i sintomi di un paziente con tosse e febbre da qualche settimana. Un modo diffuso per evitare di pagare i medici. 

Questi curavano i pazienti con alcune competenze ed esperienze servendosi di medicine messe a disposizione dal farmacista, sempre le stesse. Spesso poi consigliavano di dare ogni mattina un uovo fresco a un bambino deperito, un panino in più e un bicchiere di vino a tavola all’adulto convalescente. 

Suggerivano alle mamme di “far cambiare aria” ai figli con problemi bronchiali, portandoli almeno per una settimana al mare. Ma ciò era impossibile, per le condizioni economiche precarie della famiglia. Un mondo quello di ieri in cui le malattie c’erano, anche se le cure erano soprattutto riservate alle mamme.