Sarto e sarte

Desidero mettere in rilievo il mestiere del sarto, cioè colui che confezionava vestiti su misura, creando modelli secondo le indicazioni del cliente, ma mettendoci molto di suo nel tagliare e cucire il vestito, che nell’impostazione dello stesso. In ogni paese nei primi decenni del novecento c’erano alcune botteghe del sarto e delle sarte. Le famiglie sceglievano il sarto di fiducia, ma soprattutto meno oneroso. Il prezzo dell’indumento veniva pattuito all’ordinazione. La stoffa, di solito, la forniva il cliente.
Fuori della bottega c’era infissa la scritta: “Sarto per uomo”, “Sarto per donna”.
Erano pochi i giovani che apprendevano questo mestiere perché implicava un lungo apprendistato e di conseguenza, all’inizio, i guadagni erano scarsi se non nulli. Proprio per acquisire la manualità e apprendere i segreti del taglio, un tempo, moltissime ragazze ed alcuni ragazzi prestavano servizio gratuito nelle sartorie.
Questi giovani venivano debitamente “sfruttati”, con la scusa che imparavano un mestiere, ma intanto contribuivano, con il loro lavoro, a confezionare capi di vestiario per uomini e donne, ragazzi e ragazze che indossavano alla domenica e nelle circostanze familiari: matrimoni, funerali, viaggi.
Nelle grigie e fredde giornate invernali, si aveva la massima unità lavorativa all’interno
delle sartorie: chi intenti a riunire le cuciture, chi a fare asole, chi i sottopunti, chi altro ancora. In genere tutte le donne e uomini erano radunati in una grande sala, dove in mezzo campeggiava un lungo e largo tavolo. Questo serviva per stendere il panno, segnarlo con il gessetto e poi tagliarlo.
Normalmente l’operazione del taglio veniva fatta sempre dal sarto o da qualche esperta sotto la sua stretta osservazione. Di norma si imparava il lavoro guardando, carpendo i segreti facendo attenzione alle varie successioni di confezionamento. Alla fine, quando qualcuna aveva acquisito una certa padronanza dell’arte, allora poteva perfezionarsi e passare al taglio, che rimaneva l’apice dell’apprendimento.
Certo è, che il lavoro così concepito diventava anche un momento “conviviale”, dove i
pettegolezzi, trovavano un fertile terreno di coltivazione. Forse è capitato a tutti, una volta nella vita di andare in questi laboratori di sartoria: di solito il sarto, vestiva sempre con camicia e gilè e su questo aveva sempre puntati alcuni aghi con il filo. In ogni angolo della stanza c’era un gruppetto di ragazze, che sedute su una sedia o uno sgabello, erano impegnate nel proprio lavoro. Il sarto si avvicinava al cliente e con una fettuccia metrica misurava la vita, la gamba, il braccio e non so cos’altro. Quando poi il cliente ritornava, il sarto gli provava addosso la giacca o i pantaloni, segnati da dei grandi punti di filo bianco.
Poi, puntava degli spilli, dicendo al cliente di stare fermo, che altrimenti lo avrebbe punto. Successivamente, si passava al momento in cui il cliente indossava il vestito finito e dove i complimenti di circostanza diventavano obbligatori.
Tutte queste operazioni implicavano tempo, ma anche una buona manualità e visione
dell’insieme, nonché una certa perizia tecnica per creare la vestibilità del capo. Questi fattori creavano la rinomanza del sarto o sarta e di conseguenza determinavano non solo la quantità di lavoro, ma la “qualità” del cliente.
Noi ragazzi andavamo dal sarto in occasione della prima comunione e della cresima.
Indimenticabile è quel metro con il quale misurava le spalle, la circonferenza e lunghezza del torace nonché le gambe. Il tessuto era stato comperato a misura dai venditori ambulanti. Il giorno in cui sfoggiavamo il vestito nuovo la domanda delle comari è sempre la solita; “Chi è il sarto che te la fatto?”.
Mentre le nostre mamme ci raccomandavano di non sporcarlo o rovinarlo. “Deve servire l’anno prossimo per tuo fratello”, sussurravano”.