Quando il pane si faceva in casa

Il segno della croce sul pane da lievitare. Un gesto semplice e antico, espressione di una spiritualità sentita, che prepotente interviene nella vita quotidiana. Quante volte abbiamo visto farlo alle nostre nonne… e, racchiuso in quel piccolo gesto, una sorta di benedizione del pane. Quando il pane lo si faceva in casa…E non per far economia, quanto piuttosto per una diffidenza della qualità della farina dei fornai, oltre che per una questione “igienica”. E poi perché in quell’azione, tramandata di generazione in generazione, veniva racchiuso il significato dell’amore e dell’unione familiare. Un gesto che racconta di una società semplice, votata alla famiglia e alla terra, un gesto che racconta l’economia, ma anche le tradizioni e le usanze di una cultura tutta meridionale, un gesto in cui vi è fede e attenzione e autenticità e
femminilità e maternità e amore…
La panificazione avveniva di solito una volta alla settimana e rappresentava una specie di diversivo per le donne alle faccende domestiche.
Ogni famiglia, a seconda delle possibilità, conservava in casa una certa quantità di farina, che veniva recapitata direttamente dal fornitore, mentre chi non aveva questo “privilegio” si riforniva dagli spacci di generi alimentari. Strumento fondamentale per la panificazione in
casa era una sorta di tagliere in legno, che veniva usato anche per fare la pasta ovvero le orecchiette e i cavatelli freschi.
Sul tagliere veniva disposta la farina setacciata attraverso uno strumento che veniva chiamato il setaccio. In una parte della farina veniva sciolta con acqua tiepida una pasta inacidita – il lievito madre – tenuta in serbo dalla precedente panificazione.
Il tempo e l’energia di mani calde ed esperte facevano il resto. Formata una piccola palla, questa veniva incisa con un segno a forma di croce e “benedetta” con una frase augurale. Avvolta poi in un panno, la pasta veniva lasciata lievitare fino al giorno seguente al caldo, in un luogo protetto da panni di lana, per favorire la fermentazione.
L’indomani cominciava la panificazione.
Preparata l’acqua salata e calda, si lavorava con questa la restante farina setacciata e il lievito preparato il giorno prima. Impastando con la forza di pugni, la lavorazione si interrompeva solo quando, pressando col pollice sulla pasta, l’impronta scompariva velocemente. Voleva dire che l’impasto era pronto per l’appezzatura. Un pezzo di quell’impasto veniva conservato in una scodellina di terraglia e sarebbe servito come lievito per la volta successiva.
Le forme di pane venivano cotte presso i fornai e, per distinguere le proprie pagnotte da quelle delle altre famiglie, ogni massaia metteva segni particolari sulle proprie forme: bastoncini, cerchietti, crocette, piccoli disegni di pane, lasciati alla fantasia e alla creatività di ogni mamma. E se capitava, durante la panificazione, che i bambini chiedessero del pane, ecco allora che la mamma tagliava un po’ di pasta e la faceva cuocere sotto la cenere calda, ottenendo una specie di piccola ciambella circolare.
Il grosso della pasta veniva fatto lievitare a lungo, sistemato in una teglia unta d’olio extravergine di oliva e “bucata” con le mani. Nei fori ricavati dalle dita premute sulla massa, poi, venivano inseriti pezzi di pomodoro. Una spruzzata di origano ed ecco pronta la focaccia, che il capofamiglia avrebbe mangiato di ritorno dal lavoro.
Per il pane si aveva una sorta di venerazione: per nessuna ragione doveva essere sciupato. Anche il pane raffermo veniva riutilizzato nella minestra o latte: la famosa “zuppa di pane”. Un piatto povero, ma molto nutriente e gustoso, veniva ottenuto con il pane raffermo bagnato, condito con olio, sale, pomodorini e cipolla.
La sacralità del pane era tale che persino le briciole dovevano essere raccattate, altrimenti – si raccontava– si era condannati, una volta morti, a tornare sulla terra per raccoglierle. Il pane era una benedizione di Dio che le mamme di allora producevano con un rituale quasi sacro. E dopo aver segnato con una croce il pane da far lievitare, attendevano con trepidazione e attenzione la giusta cottura. L’avvolgevano poi in teli di lino e deposto nelle cassapanche di legno ermetiche perché conservasse più a lungo lo stato di freschezza.