Il corteggiamento era un’impresa

Il corteggiamento di una ragazza a quel piccolo mondo di ieri, poteva durare per alcuni mesi, un anno, due persino. Durava fino a quando il giovane non chiedeva la mano della figlia al padre. Solo allora si diceva che era fidanzato e andava in casa. Terminavano pertanto le serate trascorse sull’uscio di casa con la mano che sfiorava la mano della ragazza, mentre la mamma seduta in cucina sbirciava con l’occhio e con qualche palpitazione i movimenti delle due ombre attraverso le tendine dell’uscio leggermente scostate.
Varcata la soglia della casa, il giovane doveva fare le cose seriamente, prepararsi per il matrimonio. Quella porta segnava il confine tra la libertà e il matrimonio, tra il canto del cardellino tra i campi e quello in gabbia. Finiva la possibilità di stare con gli amici, divertirsi,
sbirciare altre donne. Entrare in casa, chiedere al padre la mano della figlia, voleva dire fare sul serio, firmare una specie di consenso con alcune responsabilità. Il timore dello scandalo, conseguente a una eventuale rottura, rendeva quella scelta come il sì pronunciato in chiesa.
Le mormorazioni in paese non mancavano mai e i commenti nemmeno, se un giovanotto interrompeva il rapporto. La gente parteggiava, di solito, per la ragazza, considerata brava,
bravissima, di chiesa e lui invece ritenuto un poco di buono. I pettegolezzi poi passavano di bocca in bocca per alcune settimane come se ci fosse stato un divorzio, una separazione, un tradimento. Ognuno raccontava ciò che aveva sentito dire e vi aggiungeva del suo, mandando il giovane a “pascolare” qualche fanciulla dei paesi vicini.
I giovani poi che desideravano abbordare le ragazze senza le estenuanti soste sull’uscio, aspettavano la notte, quando le ragazze dormivano. Si portavano sotto le loro finestre per fare la serenata con una chitarra e un mandolino di accompagnamento. Il suono e il canto entravano nelle stanze delle fanciulle: “Fior d’amaranto, le donne tutte, ahimè, scordano
presto, ma c’è qualcuna che stanotte ha pianto. Vola stornello e fa la serenata, alla più bella tra le più belle addormentate”. A questo punto la finestra s’illuminava e la ragazza s’affacciava alla finestra semichiusa con una camicia da notte extra-large che impediva ai guardoni pensieri cattivi.
Pure i genitori si svegliavano al suono della serenata e rizzavano le orecchie per avvertire i rumori nella stanza accanto. Non potevano opporsi, i canterini erano sulla strada, non sull’uscio di casa. In cuor loro erano persino contenti che la loro ragazza avesse in dono una
serenata. Non a tutte le ragazze del paese era riservato questo privilegio di buon auspicio per accasarsi. Le zitelle allora abbondavano nei paesi, non certo per scelta o vocazione. I genitori quindi tifavano perché le loro figlie trovassero un buon partito.
Le serenate, se da una parte rallegravano le ragazze scelte, dall’altra intristivano le altre. Le escluse si facevano persino raccomandare. Ma la scelta, di solito, cadeva su quelle ragazze del paese che possedevano qualità somatiche appariscenti: un bel viso incorniciato dalla
bionda o bruna chioma, un seno prosperoso, gli occhi seducenti. Le “pie” che palesavano tratti compunti, intimismi e un eccessivo rigore erano lasciate in disparte, classificate bigotte. In ogni paese non mancava la bionda che appariva alla finestra con la camicia da notte un po’ scollata e che mandava saluti e baci all’allegra brigata. Era la preferita.
C’erano poi le coppie clandestine che si davano l’appuntamento nelle vie oscure del paese, lontani dallo sguardo di qualche megera che puntualmente avrebbe informato i genitori. Non era facile conservare il segreto, fare in modo che gli sguardi indiscreti fossero assenti. Le strade erano strette e qualsiasi rumore passava attraverso porte e finestre abbondantemente fessurate. Capitava che s’aprisse una finestra all’improvviso e apparisse una nonna pettoruta che gridava: “Ehi, che cosa state facendo?”. Non stavano facendo proprio niente: si guardavano tenendosi stretti per mano. I fidanzati ufficiali passeggiavano invece a testa alta in piazza tenendosi per mano, alla presenza del fratellino di lei che reggeva il moccolo. Il fidanzato gli dava i soldi per comperarsi le caramelle e toglierselo dai piedi. Il ragazzo capiva il trucco e prolungava la sua assenza e così entrava nelle grazie del futuro cognato.
Le ragazze dovevano rientrare in casa non oltre le 9 di sera. Le ritardatarie subivano un processo per direttissima dalle madri, nonne e zie, fieramente avverse ai peccati impuri. Seguivano le solite domande: “Ti ha toccato? Ti ha baciato? Ti ha chiesto qualche cosa?”. Mentre facevano le consuete domande, la mamma ispezionava dalla testa ai piedi la ragazza per accertarsi che tutto fosse in ordine. Le mamme più zelanti nell’ispezione andavano oltre… La ragazza imbarazzata affermava con gli occhi lucidi: “No, non mi ha mai mancato di rispetto”. Non poteva la fanciulla contestare quella specie di sinedrio, onde evitare divieti alle uscite successive.
Spesse volte mi chiedo se servisse tanto rigore e come mai s’impediva ai sentimenti di manifestarsi. Forse, allora, i sentimenti umani erano impediti da un insieme di regole e principi rigidi. Solo una vita difficile e di sacrifici aveva senso. Sui costumi poi sentenziavano i preti: alcuni aperti e comprensivi, altri bacchettoni. Questi ultimi, purtroppo, erano la maggior parte e le nostre mamme (i papà un po’ meno) ascoltavano i loro consigli educativi.
Tornando indietro, mi sembra di entrare in un mondo diverso, chiuso, frustrante. Mi vengono però in aiuto i versi di Giovanni Pascoli: “La nube nel giorno più nera fu quella che vedo più rosa / nell’ultima sera”. Sì, il passato ha tante “nubi nere”, tanti comandi e divieti incomprensibili, ma alla “sera”, al termine di questa corsa terrena, capisco che il “buio” di ieri, di quel passato tanto diverso dal presente, ha in sé “cirri di porpora e d’oro”. Ossia i valori di sempre.