Quel piccolo mondo di ieri

Nel mio piccolo mondo di ieri, povero di cose e ricco d’umano, ho conosciuto persone, vissuto fatti che hanno lasciato in me il desiderio di correre verso il futuro con in mano la fiaccola accesa.
Detti, proverbi, mestieri di ieri.
Nei primi cinquant’anni del secolo scorso, solo un numero esiguo di adulti provenienti da famiglie benestanti, aveva frequentato le scuole superiori e pochissimi l’università. Tutti gli altri avevano concluso gli studi alla terza, quinta elementare. Possedevano però esperienze di vita, tradizioni, mestieri, valori da trasmettere alle nuove generazioni. I giornali allora erano sostituiti dalle notizie che passavano di bocca in bocca. I libri erano pochi e riservati a chi aveva una certa preparazione culturale. I proverbi e i detti popolari erano la saggezza dei contadini, della povera gente che trovava sicurezza in queste affermazioni che venivano tramandate in famiglia, nel paese. I nostri nonni erano custodi dei proverbi da trasmettere ai nipoti come regole, principi, valutazione delle situazioni che la vita presentava. Ogni famiglia aveva il suo detto, rigorosamente in lingua locale, il dialetto che conosceva accenti e suoni particolari. Sui detti e i proverbi popolari non si poteva discutere, venivano tramandati come verità, modi di pensare diffusi, condivisibili e verificabili nelle esperienze di tutti i giorni. Riguardavano i valori morali, il senso della sofferenza, persino come superare alcune difficoltà. Una vera enciclopedia di saggezza popolare. Eccone alcuni, per richiamare quei tempi e quel sapere perduto. Negli affari il venditore e il compratore affermavano: “Carta canta, parola vola”. Facevano intendere che le parole negli affari non erano sufficienti. Tra un padre e i figli, spesso ingrati: “Un padre mantiene sette figli, ma sette figli non mantengono un padre”. Se poi si doveva scegliere una moglie, doveva essere “bella, buona, silenziosa e di casa”. Inoltre, meglio se di famiglia nota:
“Donna e buoi nei paesi tuoi” E per scusarsi di un errore si diceva: “Sbagliano anche i preti a dire messa”. Alcuni detti richiamavano le situazioni difficili della vita. “A chi tocca, tocca”,
“ognuno ha la sua croce”. E di fronte a qualche decesso inatteso: “Dio vede, Dio provvede”; “Quel che Dio vuole non è mai troppo; “Ha finito di soffrire”.
Espressioni rassegnate, con la consapevolezza che la nostra vita è nelle mani di Dio. C’erano poi i modi di dire per il carattere: “È svelto come un gatto di marmo”, per un tipo pigro e addormentato; “Sta sulle sue” designava una persona chiusa in sé. “E’ al mondo perché c’è posto”, si trattava di un individuo parassitario e inutile. “Ha un piede nella fossa”, cioè stava per tirare le cuoia. Questi ed altri sono i detti che servirono a dare sicurezza, valore alle affermazioni, saggezza alle scelte della gente umile che spesso nasceva, viveva e moriva nello stesso paese senza la possibilità di studiare.
E i mestieri di ieri? Sono un ricordo prezioso gli ambulanti, gli spazzacamini, gli ombrellai e
altri che passavano di paese in paese. Gli ombrelli rotti erano consegnati all’ombrellaio, appena lo si sentiva gridare per strada. A volte più che un grido pareva un lamento, sufficiente tuttavia perché le massaie uscissero di casa con qualche ombrello sotto il braccio. L’ombrellaio si sedeva su un sasso, su un gradino, estraeva dal tascapane gli strumenti: stecche, pinze, fili, manici di corno e con la rapidità di un prestigiatore aggiustava l’ombrello.
Poi lo apriva e chiudeva velocemente, lo maltrattava facendolo girare in senso orario per dimostrare la recuperata solidità. Le sedie consumate dall’uso venivano messe fuori dagli usci e a ripararle ci pensava l’impagliatore o “scagnì” che seduto su uno sgabello basso e stringendo nella morsa delle ginocchia la sedia da riparare, intrecciava come un tessitore sul telaio lucenti mannelli di paglia.
Poi invitava un grassone di passaggio a salire in piedi sulla sedia per il collaudo. L’arrotino era un’altra professione apprezzata dalla gente. Questo signore con il grembiule e un berrettino con la visiera, aveva una mola a pedale, che con il progresso sarebbe stata applicata alla bicicletta. La mola era sormontata da un barattolo di latta, da dove scendevano alcune gocce d’acqua ad inumidire la lama. Con una sicurezza e competenza l’artista spingeva l’utensile contro la mola, spostandolo ora a destra ora a sinistra, facendo polvere e scintille. Un’arte, quella dell’arrotino, apprezzata dalle casalinghe sempre alle prese con coltelli, forbici, scuri e roncole inefficienti.
Un ricordo va riservato pure ai “magnani” che applicavano ai paioli lucenti rivestiture di stagno. Seduti accanto a una brace che serviva per sciogliere la verga di stagno nella cavità del paiolo, contrattavano il prezzo con il cliente prima del lavoro, in base alla cavità del paiolo da coprire. Era un’occasione per le donne per farsi valere, per intrattenersi con un uomo che la sapeva lunga. Lo spazzacamino invece indossava un berretto di feltro calato fin sugli occhi. Nero il berretto, nero il viso, lo si riconosceva per la voce non certamente per la faccia. Agli spazzacamini le leggende popolari attribuivano amori illegittimi. C’era la canzone dello spazzacamino, abile nel pulire le canne fumarie, ma anche nel corteggiare le casalinghe.
Detti, proverbi e mestieri portati via dalla cultura e dal progresso. Meglio quel piccolo mondo antico o quelllo di oggi? Lascio al lettore scegliere.