La famiglia patriarcale

Riporto alcuni ricordi della signora Angelina che visse nella famiglia patriarcale nei primi anni del novecento. La signora ormai con qualche lustro sulle spalle mi narrava come in questa famiglia mangiavano allo stesso tavolo: nonni, genitori, figli, nuore e anche zii e zie rimasti celibi e nubili. L’anziano nonno era il padrone, ogni decisione veniva presa da lui.
“Nella mia famiglia patriarcale nonno Beppe era il padre-padrone, il patriarca, comandava tutti. La sua autorità non è mai stata messa in dubbio da nessuno. Tutti gli ubbidivano: figli, generi, nuore e nipoti. Lui assicurava lo stretto necessario a tutti i componenti della famiglia. Nonno Beppe, oltre a lavorare la terra del podere, commerciava in bestiame. Nella tarda primavera s’incamminava a piedi verso il mercato del bestiame con le bestie da vendere.
Ritornava orgoglioso degli scambi o delle vendite. Infatti da questi viaggi riportava olio e sale, due generi alimentari che la sua terra non poteva produrre”.
“Nella mia famiglia patriarcale vivevamo in quattordici persone, tre erano i nuclei famigliari. Il mio, io e mio marito con due maschi e due femmine; quello di mio cognato e cognata con tre maschi e una femmina. Il nonno Beppe con la nonna Maria. Il nonno capeggiava su tutti e la
mattina o la sera, intorno al tavolo, discuteva con gli uomini e donne i lavori da fare: erano ordini precisi, netti, indiscutibili. Se c’erano delle controversie era lui a placare gli animi. Insomma era il grande saggio e, a distanza di tempo, mi è rimasta una percezione molto positiva di quest’uomo, malgrado la sua severità”.
“Maria la moglie di Beppe era la padrona che aveva compiti specifici per il buon andamento della casa. Maria, prima di tutto, era una grande lavoratrice che vegliava su tutto e controllava i lavori domestici. Si alzava per prima per preparare la colazione agli uomini e dare da mangiare alle galline e conigli.
Era l’ultima ad andare a dormire dopo aver svolto una dura giornata di lavori. Godeva
della fiducia del marito Beppe che rispettava e ubbidiva. Nessuna possibilità di evadere dalla sua quotidianità: famiglia, casa, chiesa. Il compenso per la sua grande fatica era possedere mentalmente e tangibilmente le chiavi della casa. Se si presentava un mendicante in cortile, solo lei, la padrona aveva la possibilità di elargire l’elemosina”.
“Nella famiglia patriarcale i figli con le loro spose e figli erano subordinati al volere del padrone e della padrona. Beppe e Maria decidevano tutto. Io che ero la nuora dovevo ottenere il permesso da mio suocero e suocera per recarmi a trovare i miei famigliari. Anche gli acquisti dovevano essere autorizzati. Mi sentivo spesso dire: “Non ti manca niente qui”. Una vita povera, faticosa, senza neppure la possibilità di soddisfare i bisogni dei propri figli”.
“I figli, non erano proprio presi in considerazione, non valevano nulla, dovevamo solo ubbidire e lavorare. Frequentavano, fino a dieci anni, la scuola del paese per qualche ora. L’insegnante, di solito, era il prete o la suora che ci facevano apprendere a leggere e a scrivere a suon di ceffoni e castighi.
Terminata la scuola i maschi andavano nei campi ad aiutare gli adulti mentre le femmine attendevano ai lavori domestici. Le bambine e ragazze imparavano molto presto a cucinare, rammendare i vestiti, lavarli e stirarli con il ferro da stiro riscaldato dalla carbonella”
“Allora mancavamo del necessario, si lavorava tanto. La terra era generosa solo se gli dedicavamo tutte le nostre energie. C’era sempre qualcosa da fare: falciare l’erba, mietere il grano, battere la canapa, rastrellare il fieno, raccogliere la legna mungere, fare il pane per l’intera settimana, travasare il vino, insaccare le salcicce, filare la lana. Tutto e di più. Quanta fatica! Eppure eravamo sereni, quel poco che avevamo ci bastava”.