La scuola

La scuola per la gente comune dei nostri paesi nei primi anni del novecento veniva frequentata non da tutti i bambini e le bambine. I miei genitori nati nel 1902, a sette anni, andavano alla scuola alcune ore al mattino. Mia mamma era orgogliosa di aver finito il terzo anno di scuola. Allora per le famiglie tre erano gli anni di scuola per i bambini e le bambine.
Lo scopo era quello di saper leggere e scrivere e fare i conti. Non tutti potevano frequentare la scuola, molti bambini e bambine già a otto anni, lavoravano come garzoni dai negozianti, dagli artigiani, a servizio nelle famiglie ricche. Mio padre ricordava spesso di aver frequentato la scuola nel suo paese portando con sé il corredo scolastico che consisteva in due quaderni con la copertina nera e i fogli bianchi dove si scriveva solo con il pennino e l’inchiostro. Sui banchi di legno c’era un buco per il calamaio, il piccolo recipiente in cui era contenuto l’inchiostro per intingere e impregnare il pennino. Non era facile con la penna non macchiare d’inchiostro il banco, le pagine e anche le mani e guance.
Scrivere era un’impresa difficile, tant’è che il primo anno scolastico s’impartivano lezioni di scrittura: i miei genitori menzionavano i tanti esercizi che dovevano fare per imparare a tracciare le lettere dell’alfabeto maiuscole e minuscole con ordine. Il penino spesso si guastava, non assorbiva l’inchiostro o per la loro poca abilità rigava il foglio, lo macchiava, scriveva lettere incomplete.
La maestra s’arrabbiava e gridava: “Asini!”. L’asino era ritenuto l’animale più stupido.
A quel tempo alunni “asini” in classe ce n’erano molti anche perché ogni giorno alcuni assentavano per impegni famigliari, arrivavano a scuola in ritardo dopo aver percorso un tratto di strada abbastanza lungo. In alcuni paesi le scuole erano lontane dalla abitazione di un chilometro, due, questo comportava che molti alunni percorrevano ogni mattina strade sterrate, polverose d’estate e fangose d’inverno. Calzavano zoccoli non sempre in buone
condizioni. Spesso arrivavano a scuola inzuppati di pioggia, di fango.
Le classi dei maschi erano separate da quelle delle femmine. I miei genitori ricordavano che erano meno le ragazze nelle classi perché la donna, anche se non sapeva leggere e scrivere, aveva altri compiti da svolgere nella famiglia, società…Vigeva purtroppo, nei paesi, l’analfabetismo come se fosse una condizione normale di quelle famiglie che facevano fatica a racimolare i soldi per vivere.
La signora maestra, di solito una zitella cresciuta in una famiglia benestante, aveva sempre a disposizione una bacchetta con la quale indicava i numeri e le lettere che scriveva sulla lavagna e non solo: bacchettava le mani degli alunni distratti o lenti nell’apprendere. Ciò faceva parte delle norme disciplinari.
I miei genitori rammentavano di essersi trovati in una pluriclasse (in un’aula tre classi) gestita con autorità e disciplina dalla maestra che per farsi valere non esitava a gridare, richiamare, castigare, bocciare.
Chi veniva bocciato subito i genitori lo collocavano da uno zio o parente per imparare un mestiere, fare lavori umili come pulire il laboratorio, la stalla…Un mondo, quello di ieri che premiava i figli di alcune famiglie che avevano il necessario per vivere e castigava i figli delle famiglie povere e numerose.
Le famiglie benestanti poi, quelle che vantavano un’attività commerciale o agricola, mandavano i loro figli nelle scuole rinomate della città, con annessi i collegi gestiti da religiosi e religiose. I collegi erano diretti dai preti e dalle suore che educavano ed erudivano questi figli fortunati per tutto l’anno scolastico. A parere dei genitori benestanti, il collegio educava bene e inculcava quel tocco di nobiltà nei figli che li avrebbe distinti dagli ignoranti della plebe.