Tutti in fila in processione

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La processione, nei nostri paesi, era un rito, una tradizione da non perdere. La statua della
madonna o del santo patrono veniva prelevato dalla nicchia da alcuni uomini forzuti e collocata nella navata della chiesa, visibile ai fedeli che cercavano di occupare i primi posti vicino al simulacro. La madonna soprattutto, nella devozione popolare, era auspicio di salute, di benessere, di tante grazie. 

Celebrazioni, messe, panegirici abbondavano per invocare l’aiuto del patrono sui mali del mondo, ma soprattutto su quelli delle famiglie. Don Pancrazio, un parroco conosciuto dai
valligiani per i suoi scrupoli, si soffermava fervoroso sul suo tema preferito: il sesto comandamento. Sugli altri nove sorvolava, sul sesto non poteva, perché la “purezza” era il cardine che reggeva la pastorale parrocchiale. 

Salito sul pulpito e sporgendosi in avanti con il busto a rischio che perdesse il baricentro e agitando le braccia, don Pancrazio, tuonava sull’ultima moda, quella dei vestiti con le maniche corte e delle gonne accorciate. Richiamava la responsabilità delle mamme che permettevano alle figlie di uscire da sole con il fidanzato e di appartarsi lungo i sentieri dei campi di grano. Se, sotto il pulpito, qualche ragazza sbuffava e sottovoce contestava con l’amica, apriti cielo, il prete le puntava il dito accusatore: “Sta zitta Tonina, altrimenti faccio il tuo nome!”. 

Dopo la predica e alcuni avvisi, la processione si snodava per le strette e storte strade, sotto
i balconi e le finestre addobbate. Le ragazze aprivano la processione portando lo stendardo delle figlie di Maria, con il velo bianco in testa, vestito nero, scarpe bianche per testimoniare il candore interiore. Seguivano le ragazze adolescenti aspiranti ad essere degne di appartenere al gruppo che le precedeva.
Venivano poi le mamme con la candela in mano e gli occhi fissi verso le figlie perché non si distraessero ammiccando qualche giovanotto durante il rito. 

I bambini e le bambine con i loro gagliardetti dell’Azione cattolica, procedevano lungo le strade, in fila indiana, riportati sovente all’ordine dalle zitelle o delegate che non risparmiavano ceffoni, sgridate, spintoni. I papà e i giovani, seguivano la statua del patrono, come se fossero dei gendarmi pronti a difenderlo. I giovani tenevano d’occhio la fila delle fanciulle quando era di ritorno e s’avvicinava. Sembravano occhiate fugaci, mentre erano vere radiografie. 

Per sventare i peccaminosi sguardi, don Pancrazio intonava con baritonale ardore: “Noi vogliam Dio Vergin Maria”. Ma i giovanotti, in quel momento, volevano almeno guardare, ammirare le fanciulle con il velo bianco. Adornavano il simulacro del santo o santa, i bambini e le bambine che aspettavano quel giorno per pavoneggiare, per la seconda volta, con l’abito della prima comunione. I preti dei paesi vicini presenziavano alla cerimonia per onorare il santo patrono, ma anche per mettere le gambe sotto il tavolo e attutire i crampi allo stomaco che, in quei tempi, non risparmiavano neppure chi abitava sotto il campanile. 

Il corteo alternava preghiere, inni, giaculatorie. Le voci canore poi si rincorrevano, si distanziavano fino a formare uno, due, tre cori nello spazio di pochi metri. I cori si ricongiungevano in chiesa al termine della processione, quando don Pancrazio, soddisfatto di aver riportato nell’ovile le sue pecorelle, intonava il canto insostituibile: “Mira il tuo popolo, o bella Signora, che pien di giubilo oggi ti onora”. Lo sguardo della Madonna non mancava verso un popolo numeroso e devoto, ma non mancavano neppure gli sguardi delle mamme che ispezionavano le panche per accertarsi della presenza in chiesa delle figlie e dei figli. 

Non sempre c’erano tutti e tutte. Con fatica e spintoni, a destra e a manca, le mamme uscivano dalla chiesa alla ricerca affannosa delle figlie che avevano perso il “santo timor di Dio”. Povere figliole!
Raggiunte da uno schiaffo, da un urlo, venivano riportate in chiesa proprio nel momento in cui si scambiavano con alcuni ragazzi: un sorriso, un saluto, un appuntamento.
Queste mamme mascoline e imperanti che riportavano le figlie in chiesa tirandole anche per i capelli, ottenevano la stima di don Pancrazio che spesso le citava come esempio. 

Ricevuta la benedizione con la reliquia, il popolo usciva sul sagrato per festeggiare le ultime ore della giornata. Prima di rincasare le ragazze facevano quattro passi per le vie del paese, occasione unica, per accontentare l’occhio, sfilando, orgogliose come principesse, davanti ai giovanotti che le ispezionavano dalle scarpe in su. Don Pancrazio chiudeva la porta della Chiesa, mentre l’altoparlante di qualche balera che voleva adescare i clienti diffondeva nell’aria le consuete canzoni. 

Un mondo quello di ieri che possiamo classificare nei riti, nelle censure, nei parroci bacchettoni e nei genitori gendarmi. È sempre difficile però giudicare il passato con le nostre idee e modi di vivere. Allora, nonostante certi limiti, si cresceva bene, onesti, con una coscienza con qualche scrupolo che ci guidava nelle scelte. I genitori, preti e le maestre con i loro consigli testimoniavano ai giovani alcuni valori o verità necessarie per dare senso alla vita.