Un vecchio saggio

Di buon mattino, mi recavo con mio nonno Lilo in una baita situata tra i boschi per far legna. Percorrevamo una mulattiera ripida, sassosa, con la neve e il ghiaccio d’inverno e d’estate ombreggiata dagli alberi. Allora tutti camminavamo per raggiungere un paese vicino, una casa isolata tra le montagne, un santuario. Le gambe erano allenate.
I piedi calzavano zoccoli o vecchi scarponi con qualche numero in più, per soddisfare i rattoppi abbondanti delle calze. Se però le scarpe erano a misura o strette, le tomaie s’adattavano con l’uso, lasciando sui piedi qualche callo o vescica di ricordo. A volte il piede non ce la faceva proprio ad ampliare la cavità della scarpa, la tomaia si rifiutava d’allargarsi. Un rimedio c’era: un pezzo di legno a sagoma di piede veniva ficcato tra suola e tomaia per allargare la cavità.
Mio padre, calzolaio familiare, mi assicurava che la tomaia della scarpa messa “in forma”, ossia pressata da quella sagoma di legno, per una o due giornate, si sarebbe allargata, allungata, insomma avrebbe ospitato i piedi comodamente. Non era proprio così. Dopo l’intervento, se le scarpe fossero rimaste strette, non valeva la pena nemmeno lamentarsi: mio padre m’assicurava che con l’uso le scarpe si sarebbero allargate, che si trattava di una pelle di cuoio particolare che richiedeva tempo, uso e un po’ di sofferenza iniziale.
Spesso con le scarpe strette seguivo mio nonno lungo la mulattiera con un passo lento ma continuo e, se mi fermavo, subito borbottava: “Su che sei giovane!”. Non avevo dubbi sulla mia età, avevo solo sette anni. Rallentavo il passo soprattutto d’inverno, durante le giornate
piovose e nevose, quando l’acqua entrava gelida dalle fessure delle scarpe e usciva tiepida e i geloni mi tormentavano.
D’estate risparmiavo gli zoccoli o gli scarponi, camminavo a piedi scalzi con il rischio che qualche spina s’accasasse nei piedi. L’estrazione non era immediata, ma avveniva di sera, quando la mamma con l’ago da cucire, disinfettato alla fiamma di una candela, allargava il foro e con il pollice e l’indice, cavava dal piede l’invasore. Geloni d’inverno e spine d’estate. Poveri piedi…
Mio nonno non si curava dei miei piedi, i suoi, per dirla con il poeta Pascoli, erano già stati “provati dal rovo” e non ammetteva alcun lamento. Camminava lungo la mulattiera con la testa bassa e aiutandosi con il bastone nodoso di rovere. Certamente la sua vita era stata difficile.
Non passava occasione, che non mi raccontasse episodi della sua infanzia di lavoro nei campi, di fatica, di fame.
Nemmeno la mia vita era facile, ma messa a confronto con la sua sembrava poca cosa. A metà percorso mio nonno estraeva dal giaccone lo zufolo, si sedeva sul solito sasso e regalava le sue note armoniose al creato, a se stesso, a me che non distoglievo da quel volto rugoso il mio sguardo. Sorseggiava l’acqua dalla fiaschetta che teneva nella bisaccia, divideva con me un panino, di solito raffermo, guardava verso l’alto per ringraziare del pane il Signore e poi di nuovo in cammino.
Giunti alla baita del monte croce, con sicurezza e orgoglio infilava nella toppa la chiave di dieci centimetri. Apriva la sua casa di tre locali: cucina, camera, cantina o ripostiglio. L’arredamento era completo: un tavolo, tre sedie, un camino, un letto e due comodini. A sufficienza per viverci. L’acqua era quella della cisterna che si riempiva o svuotava in base alle piogge. Attorno alla baita c’erano alcune piante di castagno che in autunno davano da mangiare alla povera gente, sostituendo spesso il pane.
“Poveri ma contenti”, canticchiava il nonno, mentre tagliava la legna in pezzi accessibili
alla stufa. Mio nonno era veramente una persona felice, anche se portava i pantaloni sdruciti, una camicia di flanella smunta, una giacca che sembrava dire alle spalle di allargarsi, un paio di scarponi fregati all’esercito. Era felice quando contava le poche monete del borsellino, coceva sul camino l’uovo al burro, bolliva le ossa di mucca spolpate dal macellaio, girava col matterello la polenta e la scodellava, sorseggiava un bicchiere di vino rosso e l’acqua del fontanile.
Era felice quando calpestava l’erba, tagliava e spaccava la legna, osservava le gemme degli alberi e i fiori dei boschi, respirava aria pura, seguiva con lo sguardo il pettirosso che saltellava da un ramo all’altro, suonava il suo zufolo e ammirava la bellezza del panorama libero dai mucchi di cemento. Non aveva bisogno di fingere di essere forte, di sapere molte cose. Non si preoccupava di ciò che pensavano di lui gli altri: gli bastava un confronto ogni sera con la sua coscienza.